Gabinetto dei Disegni e delle Stampe delle Gallerie degli Uffizi
Molto fu l’interesse che Jacopo Ligozzi riversò sui mammiferi, sia di grande che di piccola taglia, limpidamente fermati sulla pagina con minuzia lenticolare, compresa, in taluni casi, la registrazione delle loro abitudini alimentari. Sulla tavola raffigurante un topo quercino (“Eliomis quercinus”) ritratto inaspettatamente con una talpa europea (inv. 1960 O), il pittore illustra una noce semi rosicchiata, espediente che gli consente di visualizzare anche parte del suo interno e di dar prova delle sue straordinarie qualità mimetiche. La noce, come giustamente sottolineato , è alimento proprio del solo roditore, poiché il secondo si nutre di invertebrati che popolano il sottosuolo. I due animali sono dunque accostati su una stessa pagina per ragioni meramente compositive, poiché tali micromammiferi non condividono in natura neppure lo stesso “habitat”: il primo è solito popolare i boschi, in particolare i boschi di querce, mentre la solitaria talpa europea trascorre la maggior parte del tempo in un articolato sistema di gallerie sotterranee. Le iscrizioni in grafia ottocentesca, curiosamente invertite rispetto agli animali illustrati, facendo saltare il logico e consueto rapporto tra immagine e relativa nomenclatura, sembrano confermare la casualità del loro rapporto. Solitario e senza ulteriori indicazioni ambientali e didascaliche figura invece lo “Jaculus jaculus” (inv. 1959 O), comunemente noto come Gerboa del Deserto, un buffo roditore diffuso nelle zone aride e semiaride di Africa, Arabia, Medio Oriente e Asia centrale. Informa il botanico bassanese Gian Battista Brocchi (1772 – 1826) che “si dice, ma ignoro d’onde abbiasi ricavato questa notizia, che il Ligozzi fosse in corrispondenza con l’Aldrovandi, e che abbia somministrato a questo naturalista alcuni disegni di animale. È probabile che sia opera sua quello del Mus Jaculus che si vede nel tomo dei quadrupedi alla pag. 395, e che è esattissimo pregio che non sempre s’incontra nelle figure dell’opera dell’Aldrovandi” (Brocchi 1818, p. 210). Un riscontro diretto conferma la presenza di una replica dell’esemplare ritratto da Ligozzi nella c. 156 del Tomo I degli ‘Animali’ - volume composto da 84 figure di uccelli, 27 di quadrupedi, 5 di pesci e cetacei, 16 di mostri umani -, indicato in calligrafia autografa elegantissima come “Lepro dell’Indie” . Forse si tratta dello stesso “Topo del Faraone” menzionato nel Ms. 136 dell’Aldrovandi, . Gli esemplari ritratti sul foglio 1960 O degli Uffizi, al contrario, non furono mai replicati per il naturalista bolognese, ma vale la pena ricordare la talpa citata nel sopramenzionato Ms. 136, alla c. 157v. Non possiamo escludere che proprio questo soggetto fu una delle dieci tavole copiate da Francesco Ligozzi “per ordine de l’Illustrissimo Signor Emiglio de’ Cavalieri”, pagate lire 14 il 6 giugno 1590 in “Fiorenza” , indicato nella nota al n. 3 come “Topo delle Indie” . Se accettiamo questa ipotesi, l’anno 1590 può essere assunto come termine “post quem” per le tavole originali di Jacopo, o per lo meno le dieci indicate nel documento, tra le quali, oltre al nostro Topo, risultano elencate: “1 Conilo de l’Indie lire 14. 2 Porco de l’Indie lire 14. […]. 4 Lepro de l’Indie lire 12. 5 Falcone de l’Indie lire 14. 6 Gallo de l’Indie lire 7 (1988 O o 1990 O). 7 Galina de l’Indie lire 7. 8 Rondina de l’Indie lire 7. 9 Fiffo de l’Indie lire 7. 10 Pettirosso de l’Indie lire 7”. La notizia del pagamento è confermata in due successive note della ‘Guardaroba medicea’: la 162 , e la 163, nella quale si riportano in modo più dettagliato i soggetti copiati . Immagini come queste circolavano frequentemente tra collezionisti, scienziati, nobili e artisti, favorendo la pratica delle repliche, soprattutto per quei soggetti ritenuti particolarmente curiosi e significativi. La nostra “Gerboa” ricorre pressoché identica nei manoscritti di Aldrovandi e con varianti nelle collezioni asburgiche tra Vienna e Dresda, a cominciare dalla tavola assegnata ad Arcimboldo contenuta nel Cod. min. 42 (Österreichische Nationalbibliothek, 18r in basso), replicata nel Cod. min. 129 (c. 63r) , e di nuovo in un altro foglio attribuito allo stesso artista oggi a Dresda (Kupferstich-Kabinett, CA 213, c. 71r) . Tra i soggetti più ammirati vi furono senza dubbio le Vipere africane (“Cesastes cornutus coluber”), quei “doi serpenti, cioè del ceraste et ammonite” (lettera di Aldrovandi a Francesco de Medici del 19 settembre 1577, cc 1r-15v.) donati ancora vivi al naturalista bolognese daò Granduca dopo averli fatti abilmente ritrarre sa Ligozzi. Sappiamo che gli esemplari in possesso di Aldrovandi stavano morendo, ragione sufficientemente valida per esprimere il desiderio di averne una copia, aspirazione ribadita un anno più tardi tramite il conte Polidoro Castelli e soddisfatta nella replica conserva a Bologna (inv. 1973 O, cfr. scheda relativa link. L’opera naturalistica di Ligozzi è una delle esperienze più sorprendenti ed entusiasmanti che ci sia dato conoscere. È un’esperienza artistica, scientifica, culturale e visiva, ma anche tattile, come prova la preparazione delle carte, supporto che consente una riproduzione mimetica del dato naturale esemplare e incomparabile. Gli animali “non vi sono ritagliati sopra, né appiattiti, giacché il volume col girare dei piani ed il gioco del chiaroscuro ci comunica la sensazione tattile di un organismo che vive e si muove nello spazio” . L’occhio di Ligozzi invita a muoverci tra una posizione lontana di osservazione a una molto ravvicinata. La cura del dettaglio, mai abbandonato, è sostenuta da una conduzione grafica personalissima, in parte indipendente dalla definizione conferita al segno in ambito toscano, e debitrice della sensibilità cromatica derivante dall’ambiente veneto di provenienza . Un carattere preminente di Jacopo Ligozzi è lo straordinario virtuosismo tecnico, ripercorribile grazie ai disegni lasciati incompiuti. Su una prima traccia a pietra nera naturale, assai precisa, egli faceva seguire una base di preparazione con le sfumature fondamentali, quindi la stesura successiva dei colori dati a punta di pennello, sottilissimo, con la minuzia propria del miniatore (Firenze 1961, p. 19). Non è un caso che il maestro stesso si considerasse prima di tutto “miniator”, come si deduce dalla firma che egli ha lasciato nel dipinto di enorme formato destinato al Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze , così come non è casuale che fonti, biografie, documenti d’archivio e inventari, riferendosi alle tavole naturalistiche del Nostro, impieghino costantemente i termini ‘miniatura’, ‘miniato’, ‘minuta’, come nella nota più volte citata della ‘Gardaroba medicea’ (1619) o i “dui simplizi miniatura del Ligozia” elencati nella raccolta di Federico Morando del 1608, solo per citare due esempi . Ricordiamo infine l’uso assai particolare da parte di Ligozzi della cosiddetta “acqua arzente”, una sorta di spirito di vino, cioè alcool, impiegato per macerare le foglie delle piante e i petali dei fiori ed estrarne i colori. Tale impiego è riportato in un manoscritto anonimo del 1620 dedicato ad alcuni “segreti per far colori”: “Cavasi il verde bello della bietola, dalla parte più verde, ma il più bello è quello della pimpinella, da altri erba stella: così gli cavarai dalle foglie di viola o altri fiori più coloriti e anco di fronde di gigli, peonie, rose rosse, rosolacci di color cinabro, rosoni gialli fanno colore eccellentissimo: il tutto si fa col segreto del Ligozzi” (Il testo riprende la scheda di Cristina Casoli pubblicata in Firenze 2014; la revisione del testo per la pubblicazione sul sito del Progetto Euploos è a cura di Aliventi R.).