Gabinetto dei Disegni e delle Stampe delle Gallerie degli Uffizi
É relativamente recente la prima formulazione critica di un “corpus” di disegni con soggetto figurativo ascritti a Giuliano da Sangallo, artista sino alla fine dell’Ottocento quasi esclusivamente noto per la produzione grafica riferita all’attività architettonica e alle sue esplorazioni dell’antico. Possiamo infatti farla risalire agli esordi del secolo scorso, quando, nel 1902, Cornel von Fabriczy (1839-1910), studioso di origine ungherese, pubblicò un libretto monografico sui disegni dell’architetto e intagliatore fiorentino che comprendeva una sezione di ‘Figülriche und ornamentale Blätter’ . Il libretto fu seguito, nello stesso anno, da un articolo dal titolo ancora più eloquente: ‘Giulianos da Sangallo figürliche Kompositionen’ . All’interno del primo gruppo di fogli figurativi, peraltro assai esiguo, la collezione degli Uffizi svolse il ruolo di protagonista assoluto con quattro opere considerate autografe: la ‘Figura maschile stante’ (inv. 155 F r. link) ; il ‘Gruppo di guerrieri antichi’ e ‘Due studi di tritone con nereide’ (rispettivamente inv. 616 O recto e verso) ; la ‘Figura femminile e schizzi di decorazioni architettoniche’ (inv. 1567 A r. link) e lo ‘Studio di villa con cortile circolare, fregio dionisiaco’ (inv. 1799 O v.) . Viceversa, Fabriczy assegnò al fratello minore di Giuliano, Antonio da Sangallo il Vecchio, la ‘Giuditta con la testa di Oloferne e la fantesca Abra’ (inv. 4862) che all’Albertina di Vienna era invece attribuita tradizionalmente al nostro; lo fece sulla base del confronto con l’analoga versione del tema disegnata da Giuliano sul f. 32 r. del suo libro di disegni oggi alla Biblioteca comunale degli Intronati di Siena , pubblicato in facsimile proprio nel 1902 . Se si può comprendere il ragionamento critico formulato da Fabriczy per l’effettiva diversità linguistica che separa tra loro le due redazioni iconografiche, pressoché identiche, dello stesso tema (ma su questa diversità e le sue possibili ragioni avrò modo di ritornare), restano piuttosto incomprensibili le motivazioni che lo spinsero a non accogliere l’attribuzione tradizionale a Giuliano da Sangallo per un secondo disegno all’Albertina, dove al recto è raffigurata una ‘Scena militare all’antica’ (inv. 48 ). La composizione mostra infatti una scoperta somiglianza con uno dei quattro fogli agli Uffizi ascritti a Giuliano dallo stesso Fabriczy, ossia il ‘Gruppo di guerrieri antichi’ (inv. 616 O r.), che in effetti, come si dirà, va strettamente collegato al suo “pendant” dell’Albertina. Viene pertanto da chiedersi in quale modo lo studioso interagisse con la notizia dell’autografia del Sangallo tramandata tradizionalmente nei diversi passaggi di proprietà delle collezioni storiche e in quale misura tenesse conto delle campagne di classificazione dei disegni promosse a fine Ottocento nei musei degli Uffizi e dell’Albertina, nonché delle più antiche pubblicazioni a stampa dove si registravano gli esiti di quelle classificazioni. La domanda sottende l’esigenza di capire come lo studioso si fosse posto nei confronti dei due fratelli Sangallo, Giuliano e Antonio il Vecchio, che, condividendo esperienze di lavoro all’interno della comune bottega, dovettero spesso dar luogo a una “koinè” linguistica piuttosto che diversificarsi costantemente e in modo netto e preciso. Tra l’altro, Fabriczy scriveva in un’epoca in cui poteva avvalersi delle ricerche su quella famiglia di architetti uscite già nel 1884 a cura di un pioniere della storia dell’architettura: mi riferisco al barone Heinrich von Geymüller (1839-1909), nobiluomo nato a Vienna e appartenente a una società cosmopolita e internazionale e allo stesso tempo personalità composita di storico dell’arte, architetto e collezionista. Da Geymüller gli Uffizi acquistarono nel 1907 una nutrita raccolta di fogli architettonici indicata, per sua stessa volontà, ‘Geymüller-Campello’ (inv. 7792 A – inv. 8019 A) . E ancora prima, nel 1854, all’interno dell’edizione delle ‘Vite’ vasariane curata da Carlo Pini con Vincenzo Marchese e i fratelli Milanesi, era uscito il ‘Commentario alla Vita di Antonio da Sangallo’ in cui Pini (1806-1879) aveva descritto i disegni architettonici del nipote di Giuliano, Antonio da Sangallo il Giovane, presenti nella Reale Galleria di Firenze . Lo stesso Pini una decina d’anni dopo, all’epoca in cui era curatore dei disegni e delle stampe degli Uffizi, avviò un proficuo e vicendevole scambio di informazioni e conoscenze con il giovane Geymüller . Del resto, è noto che i fogli di architettura della numerosa famiglia dei Sangallo conobbero una precoce fortuna nel corso dell’Ottocento dando luogo ad alcuni contributi che sono da porsi alle origini stesse della disciplina storiografica . Senza contare che per le ricerche preliminari a quelle pubblicazioni approdarono a Firenze studiosi di diversi paesi, i quali a loro volta entrarono in contatto con i conservatori dell’epoca lasciando testimonianze del loro passaggio destinate a essere almeno in parte segnalate negli schedari in uso al museo. Ma finora ho accennato a contributi indirizzati in prevalenza ai progetti architettonici; viceversa, qui mi interessa approfondire i criteri di discernimento delle diverse “mani” adottati da Fabriczy per le ‘figürliche Kompositionen’ reputate di Giuliano, nonché la possibile relazione di quei criteri con i primi studi specifici sul disegno figurativo. Il pensiero corre a Bernhard Berenson (1865-1959) che, insieme a Charles Alexander Loeser e a Herbert Percy Horne, faceva parte di quel gruppo di intellettuali e collezionisti che agli inizi del secolo scorso scelsero Firenze e i suoi dintorni a propria dimora. Berenson infatti, avvalendosi delle sue indagini condotte direttamente sugli originali conservati agli Uffizi, nel 1903 diede alle stampe ‘The Drawings of the Florentine Painters’ in quattro voluminosi tomi . I contributi di Fabriczy su Giuliano erano usciti un anno prima, ma non v’è dubbio che lo studioso ungherese costituisse un anello di congiunzione tra gli studi di Geymüller incentrati sui fogli di architettura e cresciuti in parallelo alle proprie passioni collezionistiche e quelli sui disegni figurativi dei pittori fiorentini che Berenson aveva sviluppato nel quadro di un interesse storiografico più generale, basato sul criterio di classificazione delle scuole. Per inciso, va detto che Pasquale Nerino Ferri (1851-1917) già nel 1893, quando mise a punto l’allestimento dei disegni italiani e stranieri in Galleria, aveva adottato il criterio espositivo della suddivisione in scuole, per quanto fosse allora mosso da altre sollecitazioni ancora: infatti nel suo intento, all’epoca della creazione di forti stati nazionali, la scuola italiana doveva essere ricostruita sulla base di diverse scuole regionali riunificate idealmente sotto l’egida di una giovane nazione, che peraltro era ancora in parte da costruire e si trovava quasi alla vigilia della prima guerra mondiale . Ma torniamo a Fabriczy e al suo ruolo di anello di congiunzione tra gli studi di Geymüller, da una parte, e di Berenson, dall’altra. Nel contesto della sua particolare attenzione nei confronti dell’architettura fiorentina, soprattutto del Rinascimento (interesse condiviso con il collezionista viennese), sviluppò le sue riflessioni dapprima con un taglio monografico verso i disegni di Giuliano (i due codici vaticano e senese; i fogli degli Uffizi; un disegno alla Biblioteca Nazionale di Firenze e la raccolta ancora di proprietà di Geymüller) e in seguito con un affondo critico sui disegni di figura nell’articolo ‘Giulianos da Sangallo figürliche Kompositionen’. Quest’ultimo scritto si poneva dunque in parallelo con il taglio selettivo che aveva a sua volta ispirato l’impostazione dei volumi di Berenson usciti nel 1903. Le ricerche di Geymüller, Berenson e Fabriczy dovettero rifluire, almeno parzialmente, nell’opera di inventariazione e riordino della vasta e secolare collezione intrapresa prima dal conservatore amico di Geymüller, Carlo Pini, e proseguita con intenti di sistematicità e completezza dal suo successore Pasquale Nerino Ferri. L’attenzione della critica odierna si è particolarmente focalizzata sulla trasmissione di conoscenze ravvisabili nei disegni con soggetto architettonico, mentre si attende ancora una circostanziata disamina sulle interazioni tra Fabriczy, Ferri e Berenson per quanto attiene i disegni di figura ascritti a Giuliano da Sangallo. Qualche dato significativo potrebbe emergere ripercorrendo gli slittamenti attributivi e l’intrecciarsi di opinioni che portarono a cambiamenti, rettifiche o conferme da parte dei due studiosi e del curatore degli Uffizi. Ad esempio, Fabriczy per i due fogli dell’Albertina (inv. 48; inv. 4862) si lasciò alle spalle la tradizionale attribuzione storica che li voleva di Giuliano, a sua volta trascritta nel 1794 da Adam Bartsch nel catalogo della collezione di Charles-Joseph, principe di Ligne . Si trattava di una decisione di non poco conto dal momento che Bartsch, nell’iniziale ‘Avertissement’, non mancava di rimarcare come il nobiluomo avesse raccolto un gran numero di disegni un tempo nelle prestigiose collezioni di Giorgio Vasari, dell’abbé Marolles, di Pierre Crozat e Pierre-Jean Mariette, nonché di altri ancora; e così si può supporre che il nome di Giuliano per i due fogli dell’Albertina fosse stato avanzato assai per tempo e, di conseguenza, non dovesse essere liquidato senza motivate ragioni. Viceversa, per quanto riguarda gli Uffizi, Fabriczy sembrò tenere in maggiore considerazione le opinioni che prima di lui Ferri aveva affidato a rapide pubblicazioni di tipo inventariale: lo fece in particolare in relazione a due dei quattro fogli da lui ritenuti di Giuliano, ossia l’inv. 1799 O e l’inv. 1567 A . D’altra parte, lo studioso ungherese avallò l’opinione di Ferri anche per un gruppo di tre disegni con, al recto, figure di apostoli, evangelisti e santi copiati dal battente destro della porticina bronzea ovest (la Porta degli Apostoli) di Donatello nella Sagrestia Vecchia di San Lorenzo, (invv. 259 F r. link; 260 F r. link; 261 F r. link). Il curatore degli Uffizi aveva infatti già assegnato tutti questi fogli ad Antonio da Sangallo il Vecchio, assieme a un quarto, le ‘Tre figure femminili con quattro putti alati’ (inv. 262 F r. link) , che in seguito anche Fabriczy ritenne di dover ascrivere al fratello minore di Giuliano . A sua volta, Ferri fu pronto a riconsiderare a favore di Giuliano disegni precedentemente posti nel limbo degli autori anonimi del sec. XVI, come la ‘Figura maschile stante’ (inv. 155 F r.); anzi, a dire il vero era stato proprio lui ad avanzare il nome del Sangallo (intento a copiare un’immagine botticelliana) per poi passare ad Antonio il Vecchio e, in seguito, ritornare a Giuliano: a raccontarcelo è lo stesso Fabriczy che mostrava di essere ben documentato sul lavoro quotidiano di Ferri . Evidentemente tra lo studioso ungherese e il conservatore della raccolta grafica degli Uffizi doveva essersi istituito un certo dialogo, allo stesso modo di quanto in passato era avvenuto tra Geymüller e Pini. E se Ferri poté avvalersi delle ricerche di Fabriczy, quest’ultimo trovò certo spunti dalle prime pubblicazioni a stampa del curatore: il ‘Catalogo riassuntivo della raccolta di disegni antichi e moderni posseduta dalla R. Galleria degli Uffizi di Firenze’ edito nel 1890, menzionato infatti a più riprese, ma anche l’‘Indice geografico-analitico dei disegni di architettura civile e militare esistenti nella R. Galleria degli Uffizi’ del 1885 . In realtà, in quest’ultimo volume Ferri annoverava come attribuiti all’artista anche sette disegni provenienti dalla collezione di Emilio Santarelli, tutti poi respinti dal collega ungherese , e assai opportunamente poiché la cospicua ‘raccolta Santarelli’, pervenuta agli Uffizi nel 1866 , presenta spesso attribuzioni insidiose o totalmente depistanti, come gli studi seguenti hanno mostrato in diverse occasioni. D’altra parte, le pubblicazioni menzionate del solerte curatore non avevano certo pretese critiche; piuttosto, si limitavano a fornire materiali alla ricerca e a diffondere, attraverso la circolazione a stampa, le tradizioni inventariali più antiche e le riclassificazioni cui Ferri era pervenuto in concomitanza con la sua sistematica campagna di inventariazione dei disegni dove erano rifluite le ricerche della precedente generazione di conservatori e studiosi. L’inventariazione complessiva della raccolta pubblica fiorentina, iniziata almeno dal 1879, cioè subito dopo la conclusione del soggiorno in Italia di Fabriczy (1876-1878), diede luogo a diversi manoscritti concepiti come schede mobili o volumi, utili anche per comprendere la movimentazione delle opere e i diversi ordinamenti espositivi . Non so quanto questi materiali manoscritti potessero essere a disposizione dello studioso ungherese, una volta stabilitosi stabilmente a Stoccarda, ma certamente, come vedremo, lo furono per altri e contribuirono a fornire materiale da discernere e indagare in occasione delle future ricerche sangallesche. Non solo: alcuni manoscritti, come le essenziali e succinte schedine riepilogative sui disegni di ogni artista documentato in collezione, vennero progressivamente rivisti e implementati da Ferri in base agli aggiornamenti bibliografici. Per una fondamentale incomprensione del valore storico di quelle testimonianze, esse sono state manipolate sino a epoche recenti con iscrizioni apposte a matita o a penna sul corpo della scheda storica, oltretutto senza seguire una sistematicità nelle informazioni aggiunte. Fortunatamente ancora oggi è possibile verificare i passaggi attributivi presenti nella schedina manoscritta in cui Ferri riepilogava i fogli di Giuliano da Sangallo in collezione. Mi intrattengo rapidamente su tale documento in quanto contiene indicazioni dei rapporti e degli scambi vicendevoli tra il curatore da un lato, Fabriczy e Berenson dall’altro. La schedina originariamente registrava un disegno della categoria ‘Ornato’, cioè il 1799 O già menzionato; uno della categoria di ‘Figura’, proveniente dal volume XII e privo di numero di inventario; ottanta fogli originali della categoria di ‘Architettura’ e sette attribuiti, anch’essi sprovvisti di indicazioni inventariali, nonché due disegni derivanti dalla Cartella 9 della ‘collezione Santarelli’ (invv. 579 S; 580 S) . Oggi abbiamo perso le tracce del foglio della categoria di ‘Figura’ inizialmente collocato nel volume XII; non ci sono infatti pervenute notizie antiche di disegni figurativi di Giuliano da Sangallo , il cui nome peraltro non compare neppure nella ‘Listra de’ Nomi de’ Pittori, di mano de’ quali si hanno Disegni’ di Filippo Baldinucci, stampata l’8 settembre 1673 e, in una copia alla Biblioteca Nazionale di Firenze, aggiornata sino al 1 agosto 1675 con appunti manoscritti autografi . D’altra parte, non è stata al momento neppure reperita “Una Testa di Fauno maschera, a matita nera” descritta nell’‘Inventario dei Disegni’ (post 1775 – ante 1793) di Giuseppe Pelli Bencivenni sotto la voce generica “Sangalli” e corrispondente al n. 64 della ‘Miscellanea XXII’ , che potremmo forse identificare con il disegno ricordato da Baldinucci nella Nota de’ libri de’ disegni tanto grandi che mezzani del 1687 , accreditando così una sua più antica provenienza. Per tornare alla schedina manoscritta di Ferri, solo in un secondo momento, a matita, il curatore aggiunse ai disegni di ‘Ornato il Gruppo di guerrieri antichi’ con al verso ‘Due studi di tritone con nereide’ (inv. 616 O), ascritto all’artista nel 1902 da Fabriczy, nonché a quelli di ‘Figura’ le ‘Tre figure femminili con quattro putti alati’ con al verso ‘Varianti per l’attico di un palazzo e studi di un cornicione’ (inv. 262 F), che viceversa aveva in precedenza pubblicato, allo stesso modo di Fabriczy, come autografo di Antonio da Sangallo il Vecchio . Se nel primo caso, dunque, Ferri accolse la proposta dello studioso ungherese, per l’inv. 262 F il cambio di attribuzione registrato sulla schedina manoscritta palesa la sua conoscenza della nota redatta da Berenson nel 1903 sui disegni figurativi di Giuliano da Sangallo e del relativo elenco di opere, dove appunto, per avanzare quella diversa proposta attributiva, lo studioso di origine lituana naturalizzato statunitense aveva sottolineato l’affinità del foglio con le due versioni di ‘Giuditta’ rispettivamente nel codice senese e nel disegno all’Albertina . Dal canto suo Berenson sembrò recepire in qualche misura le indicazioni di Ferri nel caso dei tre disegni con apostoli, evangelisti e santi copiati da Donatello (invv. 259 F; 260 F; 261 F), dove le sette figure, a suo parere più crude e decise rispetto a quelle di Giuliano, potevano essere ascritte ad Antonio il Vecchio secondo una precedente attribuzione (evidentemente lo studioso si riferisce a quella pubblicata nel 1890 da Ferri) . Il “corpus” dei disegni che Berenson assegnò allora a Giuliano era assai modesto, dal momento che nelle sue intenzioni rappresentava solo un nucleo iniziale per circoscrivere il quale si era avvalso anche di confronti con elementi figurativi presenti in disegni di architettura (invv. 278 A; 279 A), dove la raffigurazione di bassorilievi o statue gli sembrava offrire qualche elemento utile per la valutazione dei fogli con soggetti figurativi . Nella nota che introduce la lista dei disegni, egli scrive che la decisione di occuparsi di Giuliano è un’eccezione alla regola secondo cui nella sua pubblicazione venivano contemplati solo i disegni dei pittori, o quanto meno di coloro che furono tanto pittori quanto scultori o architetti . Le ragioni di questa eccezione sono evidenti: Berenson sottolinea l’indubbia relazione di Giuliano con Sandro Botticelli, indirettamente supportata anche dall’iscrizione del suo nome sul verso del tondo raffigurante la ‘Madonna con il Bambino, san Giovanni Battista e un angelo’, oggi alla National Gallery di Londra. Egli non crederà mai all’autografia di Giuliano per quel dipinto, ma introducendolo nel suo discorso intende creare intorno alla figura dell’architetto una serie di indizi (dal nome vergato sul verso del tondo ai soggetti botticelliani di alcuni disegni) che gli consentono di inscrivere la personalità artistica di Giuliano all’interno di un contesto preciso, costituito appunto dall’ambiente botticelliano. Un ambiente vasto e caratterizzato in modo vario, su cui ebbe modo di riflettere grazie anche agli stimoli suscitati dai primi studi monografici sul Botticelli e in particolare dalle ricerche dell’amico Horne, queste ultime destinate a confluire nella nota pubblicazione del 1908 . Proprio Horne si intrattenne sul tondo, avanzando confronti con altre opere della stessa mano che a suo avviso era da rintracciare nel contesto della scuola del Botticelli, mentre l’iscrizione doveva indicare la presenza dell’opera nella collezione personale di Giuliano da Sangallo . Lo scambio reciproco di informazioni e opinioni tra Berenson e Ferri, certamente intensificato da incontri nella sala di studio della collezione pubblica fiorentina dove talvolta ebbero la possibilità di lavorare fianco a fianco davanti agli originali, si allarga ad altre persone quando si passa ad esaminare l’edizione di ‘The Drawings of the Florentine Painters’ del 1938 . Qui, rispetto al 1903, Berenson non dedica più al solo Giuliano il breve testo introduttivo alla lista dei disegni, ma lo estende anche ad Antonio il Vecchio fornendoci, inoltre, una preziosa informazione: una volta uscito il suo libro in prima edizione, fu Geymüller a persuaderlo del fatto che gran parte dei fogli nell’elenco da lui compilato nel 1903 spettasse invece ad Antonio . Le stesse conclusioni, prosegue Berenson, erano peraltro già state raggiunte da Fabriczy nell’articolo del 1902 ‘Giulianos da Sangallo figürliche Kompositionen’ e in seguito confermate da James Byam Shaw (1903-1992) nel 1931 . Quest’ultimo, aggiunge Berenson con un’ironia neppure troppo scoperta, aveva visto più chiaramente le differenze tra i due fratelli, cogliendo una superiorità di Antonio che egli invece continuava a non percepire. Dunque, per l’edizione del 1938 veniva rispolverato l’autorevole parere di Geymüller (che era ritornato a esercitare un ruolo centrale per gli Uffizi dopo la vendita della sua collezione nel 1907) e vi si aggiungevano quelli di Fabriczy – i cui testi Berenson evidentemente non era riuscito a consultare nel 1903 – e di Byam Shaw, autore nel 1931 di due articoli nel secondo dei quali offriva un quadro più ampio, rettificando alcune opinioni precedenti . Lo studioso inglese finiva infatti per ascrivere ad Antonio da Sangallo il Vecchio i due disegni all’Albertina – compresa dunque la ‘Giuditta’ che nel primo contributo aveva assegnato al Botticelli, mentre nel secondo la ritiene una copia di Antonio dal codice senese di Giuliano o una sua derivazione da un prototipo del Botticelli –, nonché cinque fogli agli Uffizi: le tre copie da Donatello (invv. 259 F – 261 F), le ‘Tre figure femminili con quattro putti alati’ (inv. 262 F r.) e la ‘Figura maschile stante’ (inv. 155 F r.) . Soffermandosi per primo sullo studio delle filigrane, sosteneva poi l’appartenenza dell’intero gruppo a un unico libro di disegni di Antonio , la cui cronologia (certo anteriore al 1525, data della ricevuta autografa sull’inv. 262 F v.) doveva a suo parere assestarsi probabilmente entro i primi del Cinquecento. Quando scrisse il secondo intervento Byam Shaw, nato a Londra nel 1903, non aveva ancora trent’anni; si trovava dunque agli inizi della sua brillante carriera professionale che lo avrebbe portato per un lungo arco temporale a dirigere la Galleria Colnaghi e a intrecciare amicizie con personaggi di spicco anche nel campo dello studio dei disegni, quali Arthur Ewart Popham, del British Museum, e Sir Karl Parker, dell’Ashmolean Museum di Oxford. Forse il maturo Berenson, uscito dalla Harvard University, si sentiva minacciato, almeno in una prospettiva futura, dal giovane inglese, che aveva a sua volta studiato nella prestigiosa Christ Church oxoniense. Fatto sta che non gli risparmia una frecciatina sulla sua capacità di cogliere le differenze qualitative tra i due fratelli Sangallo, anche se poi nella lista dei disegni di Giuliano ed Antonio il Vecchio, rivista per l’edizione del 1938, accoglie generosamente i suggerimenti che gli erano giunti personalmente o mediante letture. Dei disegni pubblicati nel 1903 sono infatti rimasti nel corpus di Giuliano solo un paio di fogli con soggetti figurativi, oltre ai due libri di disegni alla Biblioteca Apostolica Vaticana e a Siena: l’inv. 192 E r. con l’‘Angelo in piedi volto a sinistra e san Giovanni Battista che incede verso sinistra’ – la cui attribuzione appare oggi più che improbabile perché priva di qualsiasi relazione con i fogli del nucleo storicamente ascritto a Giuliano – e l’inv. 1799 O. Restano anche i due soggetti di architettura con parti figurative – l’inv. 278 A e l’inv. 279 A – di cui Berenson si avvalse già nel 1903 per motivare l’autografia dei fogli descritti nella sua lista, mentre tutte le altre opere passano ad Antonio da Sangallo il Vecchio. Giuliano, disegnatore di figura, sta incominciando a perdere la propria fisionomia, al punto che persino un’aggiunta rispetto all’edizione del 1903 – l’inv. 616 O , che faceva parte del gruppo di disegni autografi ricostruito da Fabriczy – oscilla ipoteticamente tra Giuliano e Antonio. E ancora meno netta e definita riuscirà la personalità artistica di Giuliano nell’edizione italiana del 1961, ‘I disegni dei pittori fiorentini’ , dove le poche addizioni rispetto al 1938 rispecchiano almeno in parte i pareri espressi da Bernhard Degenhart nel suo ampio articolo uscito qualche anno prima, nel 1955 . Qui peraltro – dopo la drastica riduzione operata da Giuseppe Marchini nella sua monografia del 1942, dove è accettata solo l’autografia per l’inv. 616 O – il “corpus” di Giuliano assumeva proporzioni assai vaste, includendo illustrazioni nella ‘Divina Commedia’ con il commento di Cristoforo Landino conservata alla Biblioteca Vallicelliana di Roma e tanti altri fogli ancora, molti dei quali agli Uffizi. Ma rinvio ad altra occasione l’approfondimento sulle aggiunte introdotte da Degenhart e su quelle avanzate in seguito, spesso partendo dalle conclusioni del suo saggio . È infatti precisamente al 1938 che intendo fermarmi, perché la selezione delle opere in mostra rispecchia intenzionalmente le ricerche e il dibattito tra studiosi e conservatori sviluppati dalla fine Ottocento agli anni Trenta del Novecento. Tale scelta ci consente di ragionare criticamente sul nucleo storico dei disegni di figura ascritti Giuliano, od oscillanti tra lui e il fratello Antonio il Vecchio, per porre basi più solide per le future indagini rivolte a questo aspetto dell’attività dei due Sangallo. Indagini che a loro volta dovranno tenere maggiormente in considerazione le nuove conoscenze emerse nel frattempo nel campo assai più indagato dei fogli di architettura. Con l’intento, dunque, di illustrare finalmente le mie personali conclusioni, ritorno a quella manciata di fogli con soggetti figurativi tramandati dalla tradizione come opere di Giuliano, oppure registrati alternativamente come di Giuliano o di Antonio il Vecchio nelle inventariazioni di tardo Ottocento e in seguito assegnati all’uno e all’altro fratello dalla prima critica compresa tra gli scritti di Fabriczy (1902) e la seconda edizione dell’opera di Berenson (1938). Anche a un semplice esame visivo mi sembra evidente che esiste una notevole differenza, per tecnica, linguaggio stilistico e funzione, fra i tre disegni con apostoli, evangelisti e santi da Donatello (invv. 259 F r.; 260 F r.) e la ‘Figura femminile e schizzi di decorazioni architettoniche’ (GDSU inv. 1567 A r.) da una parte e, dall’altra, ‘Giuditta con la testa di Oloferne e la fantesca Abra’ (Albertina, inv. 4862), la ‘Scena militare all’antica’ (Albertina, inv. 48 r.), la Figura maschile stante (GDSU inv. 155 F r.) e l’inv. 616 O, con al recto il ‘Gruppo di guerrieri antichi’ e al verso ‘Due studi di tritone con nereide’. Peraltro, il recto di quest’ultimo disegno va fisicamente collegato alla Scena militare all’antica dell’Albertina (Albertina, inv. 48 r.), di cui prosegue la storia: si noti a questo proposito la tenda tagliata a destra che viene completata dalla tenda a sinistra nella composizione a Vienna . Esso infatti costituiva originariamente un unico foglio poi diviso in due, oppure uno dei due fogli dedicati alla medesima composizione e legati insieme in uno stesso libro di disegni. La tenda in ogni caso fornisce un dettaglio iconografico non secondario alludendo con ogni probabilità alla tenda di Oloferne, nell’accampamento degli Assiri, dove si consumò la tragedia della decapitazione richiamata dalla ‘Giuditta con la testa di Oloferne e la fantesca Abra’. Nell’impaginazione del libro, dunque, i tre disegni (anzi due, contando insieme i fogli di Firenze e dell’Albertina) dovevano susseguirsi con questo ordine di lettura: il ‘Gruppo di guerrieri antichi’ degli Uffizi (inv. 616 O r.) e la ‘Scena militare all’antica’ dell’Albertina (inv. 48 r.), da considerarsi una raffigurazione unitaria dell’accampamento assiro prima del dramma richiamato dalla tenda di Oloferne sullo sfondo, e di seguito la ‘Giuditta’ viennese (inv. 4862) che sintetizza, con la forte immagine del capo mozzato sorretto dall’eroina del popolo di Israele, l’avvenuta consumazione di quel dramma. Tornando all’analisi del linguaggio stilistico, a metà tra i due gruppi sopra individuati mi paiono collocarsi le ‘Tre figure femminili con quattro putti alati’ (inv. 262 F r.), il cui tratteggio a penna si avvicina a quello delle copie da Donatello (invv. 259 F-261 F), distinguendosene tuttavia per una maggiore sottigliezza di tratto e per una diversa sensibilità luministica, almeno a quanto si può cogliere dal livello di finitezza del disegno. Le prime, racchiuse entro saldi confini lineari, riescono piuttosto bidimensionali, mentre le figure nell’inv. 262 F, se fossero state tecnicamente più rifinite, avrebbero potuto accostarsi agli effetti di luce sottilmente delicati di certi disegni del Botticelli, come la ‘Ninfa accompagnata da putti’ (‘Allegoria dell’Abbondanza o dell’Autunno’) del British Museum . D’altra parte, è del tutto verosimile che i due fratelli Sangallo, per la loro lunga e intensa collaborazione, mostrassero alcune affinità nel “ductus” del tracciato a penna, oltre a utilizzare a volte le stesse carte – come suggeriscono le filigrane ricorrenti nei disegni dei due gruppi prima individuati – e ad avvicendarsi sulle medesime pagine di un taccuino o sul recto e sul verso di uno stesso foglio . Questo insieme di circostanze rende piuttosto difficile l’esercizio della distinzione delle mani, che non può essere affidata soltanto a elementi esterni per quanto oggettivi, come l’indicazione di date apposte su una delle due pagine di un foglio: per esempio, la data 1525 della ricevuta autografa di Antonio sul verso delle ‘Tre figure femminili con quattro putti alati’ (una composizione che forse intende ricreare una scena bacchica all’antica con al centro la ‘Temperanza’, come mi suggerisce cortesemente Massimiliano Rossi) non deve necessariamente valere come argomentazione definitiva per stabilire l’autografia del fratello di Giuliano e la datazione anche del recto. In effetti, oltre alle differenze avvertibili nella conduzione di un tracciato segnico a penna comune (evidentemente diffuso nella famiglia Sangallo a certe date), il disegno in esame mostra alcuni punti di contatto con fogli del Codice Barberiniano che, per quanto meno indicativi della famosa ‘Vergine con il Bambino circondata dagli Angeli’ (f. 2v.), offrono qualche elemento di raffronto utile per la costituzione del “corpus” di disegni figurativi di Giuliano. Mi riferisco al putto, desunto da un sarcofago, sul f. 12 , che a mio avviso dialoga con i putti alati nell’inv. 262 F. Prima dunque di affrontare la questione dell’attribuzione dei nove fogli del nucleo storico di Giuliano, è preferibile individuarne le componenti culturali. A tal riguardo si è notata una notevole diversità tra la ‘Giuditta’ di Vienna e la stessa eroina nel f. 32r del libro di disegni alla Biblioteca comunale degli Intronati di Siena, tanto che James Byam Shaw, come si è visto, aveva in un primo momento pensato al Botticelli come autore della composizione viennese, prima di ascriverla ad Antonio da Sangallo il Vecchio . Del resto, l’autografia di Filipepi rispunta sporadicamente anche in tempi recenti , ma senza motivate argomentazioni. In realtà, la differenza con il ‘Taccuino Senese’ è imputabile in questo caso non tanto a una mano e una mentalità diverse, ma a una distinzione nella tecnica, nella funzione e forse anche nella cronologia . Il variare di queste componenti condiziona in una certa misura l’interpretazione dello stesso tema. Nella ‘Giuditta’ di Siena prevale l’idea del modello di repertorio e quindi una trascrizione più seriale e ripetitiva, realizzata con una penna che rielabora in modo personale il ductus lineare in uso presso il Verrocchio, sia tra i suoi allievi fiorentini, sia tra gli artisti provenienti da fuori ed entrati nella sua orbita, tra cui il Perugino, che ricorrevano a particolari stilizzazioni come gli occhielli di zone d’ombra nelle pieghe. Nel nostro disegno prevale comunque un certo parallelismo con il linguaggio segnico dei disegni dall’antico di Domenico Ghirlandaio. Le vesti al vento, probabile omaggio all’originario prototipo botticelliano che a mio parere resta ancora da reperire , sono dunque rese con sistemi grafici affini a quelli impiegati da artisti di spiccati interessi antiquari educati nella scuola del Verrocchio o gravitanti nel suo ambito. D’altra parte, la cultura antiquaria manifestata nei fogli del secondo gruppo indicato poco fa (e in particolare nella coppia all’Albertina, invv. 4862; 48, e in quella agli Uffizi, inv. 155 F r., 616 O r.) sembra mostrare un deciso aggiornamento rispetto al tracciato lineare a penna della Giuditta senese che abbiamo visto rientrare nello stile antiquario di fine Quattrocento di ambiente fiorentino e in specie ghirlandaiesco. Vi si scorge infatti un singolare riflesso delle storie all’antica affrescate a chiaroscuro soprattutto a Roma nei primi del Cinquecento. Mi riferisco a quell’ambiente romano che accoglieva figure provenienti da diverse parti d’Italia e in cui pittori e scultori davano insieme vita a uno stile antiquario sovraregionale; proprio agli esordi del secolo si distingueva, tra gli altri, Jacopo Ripanda che conobbe un momento di grande celebrità per aver disegnato dal vivo l’intera Colonna Traiana e per i suoi cicli di affreschi largamente perduti (tra cui, appunto, monocromi) distribuiti tra Roma e alcuni luoghi, come per esempio Ostia, ricordati da Vasari anche a proposito dell’attività di Giuliano . Jacopo proveniva da quella Bologna che a fine Quattrocento aveva svolto la funzione di collettore di esperienze maturate sull’antico, assai diverse tra loro anche a causa dei frequenti passaggi di artisti forestieri o dei costanti viaggi dei bolognesi, tra cui soprattutto Amico Aspertini: vi erano infatti progressivamente giunti echi dalla Padova dello Squarcione, dello Zoppo e di Mantegna; dalla Mantova di Mantegna; dalla Firenze di Domenico Ghirlandaio e Filippino Lippi; dalla Roma di Bernardo Pinturicchio . A sua volta l’“Urbe”, che conobbe l’attività di gran parte degli artisti menzionati e di altri ancora, come lo scultore lombardo Andrea Bregno, sui primi del Cinquecento diede luogo a una contaminazione linguistica delle tendenze artistiche cresciute in diversi centri dell’Italia centrale e settentrionale, destinate qui, al contatto con le antichità, a subire un processo di forte rielaborazione. La mia proposta è dunque quella di assegnare definitivamente a Giuliano ‘Giuditta con la testa di Oloferne e la fantesca Abra’ (Albertina, inv. 4862), la ‘Scena militare all’antica’ (Albertina, inv. 48 r.), la ‘Figura maschile stante’ con il verso dedicato a ‘Schizzi architettonici in pianta e in alzato’ (GDSU inv. 155 F), il ‘Gruppo di guerrieri antichi’ e, al verso, ‘Due studi di tritone con nereide’ (inv. 616 O). Allo stesso Sangallo spettano anche le ‘Tre figure femminili con quattro putti alati’ (inv. 262 F r.), mentre il verso del medesimo foglio vede l’intervento posteriore del fratello Antonio, autore inoltre delle tre copie da Donatello, (invv. 259 F-261 F) nonché della ‘Figura femminile’ (inv. 1567 A r.) ripresa dalla Grazia all’estrema sinistra nell’affresco del Botticelli già nella Villa Lemmi e ora al Louvre, raffigurante ‘Giovanna Tornabuoni con Venere e le tre Grazie’. Va inoltre aggiunto che negli elementi architettonici disegnati sulle tre derivazioni donatelliane dovute ad Antonio, Dario Donetti da tempo ha ragionevolmente ravvisato l’intervento del figlio di Giuliano, Francesco . Il “corpus” sicuro del Sangallo si riduce così a cinque numeri, di cui due corrispondenti ai disegni di Vienna assegnatigli “ab antiquo”, cioè forse ancora prima di confluire nella raccolta di Charles-Joseph, principe di Ligne. Chi lavora sui fondi storici di grafica e deve costantemente misurarsi con il livello di attendibilità delle attribuzioni tradizionali sa bene come la ricorrenza di un nome non può costituire una prova decisiva, ma neppure una testimonianza da trascurare qualora sussistano altri argomenti, anche indiretti, a supporto della credibilità di quella informazione. Da questo riassetto del “corpus” originario di Giuliano emerge un artista di cultura antiquaria a trecentosessanta gradi, al passo con i pittori più predisposti alla riappropriazione dei modelli antichi e non soltanto interessato al rilievo di antichità, direttamente o tramite copie da codici precedenti, ma desideroso anche di elaborare un proprio linguaggio grafico idoneo alla trascrizione di quei monumenti. Giuliano, dunque, sembrò dapprima vicino allo stile antiquario a penna di Domenico Ghirlandaio, che a sua volta rappresentava un passo avanti rispetto a quell’asciutto ed essenziale linguaggio segnico, accompagnato da sommarie convenzioni stilistiche e utilizzato almeno fino agli anni Sessanta del Quattrocento nei libri di disegni dedicati alla repertorializzazione delle antichità, uno stile grafico, cioè, “compendiario”, quasi meramente classificatorio, contrapposto a un linguaggio stilistico con valenze e obiettivi estetici più marcati, destinato nel tempo a soppiantarlo . Poi, in occasione dei suoi soggiorni romani, Giuliano giunge a confrontarsi con la cultura artistica messa a punto a Roma nei primi del Cinquecento, in un periodo in cui la neutralità di un sistema di segni che documenta fedelmente (o asetticamente) i reperti antichi aveva ceduto il passo a un sistema descrittivo in grado di restituire tutte le manifestazioni dell’antichità, talora attratto dall’ibridismo delle forme e soprattutto capace di ripensare originalmente le fonti classiche in chiave antico-moderna. Credo che precisamente in questa seconda fase del suo acculturamento antiquario nascano la ‘Scena militare all’antica’ suddivisa nei due fogli agli Uffizi e all’Albertina (inv. 616 O r. e inv. 48) e la ‘Figura maschile stante’ (inv. 155 F r.) il cui soggetto, interpretato abbastanza di recente come Lucrezio dopo le precedenti identificazioni con Mosè o con Giove tonante , rimane ancora misterioso. Si sarebbe tentati di legarlo ai due disegni di cui s’è detto sopra e alla ‘Giuditta’ di Vienna e in questo caso si potrebbe pensare all’attendente di Oloferne, Bagoa, che, dopo aver scoperto il corpo decapitato del suo generale all’interno della tenda, diede in alte grida di dolore e di lamento, urlando con tutte le forze e strappandosi le vesti (‘Libro di Giuditta’, XIV, 16). Per accogliere definitivamente questa ipotesi andrebbero spiegati anche la presenza del libro capovolto ai piedi della figura, senz’altro più voluminoso di quello sorretto dal soldato in primo piano nella ‘Scena militare all’antica’ di Vienna e forse da identificare con il registro degli ordini e delle prescrizioni del generale custodito dal suo fedele e disperato attendente, nonché la somiglianza del volto con quello di Oloferne nel disegno con ‘Giuditta’. In quest’ultimo caso l’artista potrebbe aver fatto ricorso a una sorta di generica maschera tragica valida per diverse situazioni, riecheggiando la figura del sacerdote nel gruppo scultoreo del ‘Laocoonte’, scoperto nel 1506 e destinato a diventare ben presto un’immagine iconica per la rappresentazione del dolore universale . Nel viso del personaggio maschile (chiunque egli sia, possibilmente Bagoa) ravviso inoltre un’interpretazione in chiave eroica del delicato patetismo di figure del Botticelli quali il ‘San Giovanni Battista’ degli Uffizi (inv. 188 E), viceversa, nell’Oloferne del foglio a Vienna mi sembra di dover rilevare un lieve accento leonardesco. Infine, la torsione del corpo, di ascendenza botticelliana, ma accentuata dalle suggestioni dell’antico, è resa con una forza espressiva che richiama possenti figure scultoree, per esempio nel particolare rilievo, plastico e luministico, delle fasce muscolari. Peraltro queste attenzioni non erano insolite in un artista che lavorava a fianco del fratello Antonio e del figlio Francesco, entrambi scultori di Crocifissi lignei , e che non doveva neppure mostrarsi insensibile alle ricerche plastiche del giovane Michelangelo. Infine, il disegno si presta a un confronto con il f. 18v del Codice Barberiniano dedicato al basamento della Colonna Traiana, dove nelle due figure alate che reggono l’iscrizione si rintraccia il particolare modo di rendere i profili delle vesti increspati e rialzati in bianco . Giuliano, all’altezza del primo decennio del Cinquecento e poco oltre, si dichiara dunque un artista antiquario partecipe della cultura romana dell’epoca, ma pur sempre fiorentino nei sedimentati ricordi del Botticelli, negli echi, per quanto un poco sfocati, di Leonardo e nelle prime intuizioni delle novità michelangiolesche. Soprattutto, è un artista che sa rinnovare un sistema narrativo ispirato alle fonti classiche ricostruendo scene all’antica e partecipando attivamente a quella stagione che conobbe il passaggio dall’imitazione dell’antichità alla sua assimilazione . (tratto da Faietti 2017, redazione a cura di Aliventi R., settembre 2023).